Copertino
PIATTI E PRODOTTI TIPICI
MELONCELLA
La Meloncella è un ortaggio simile a un cetriolo nell’aspetto, ma appartiene alla famiglia dei meloni, uno degli ingredienti principali dell’insalata salentina insieme a pomodori, cipolle e olive nere. Ha un sapore fresco e succoso e un gusto tipicamente estivo. La polpa è di colore verde chiaro e ha tante proprietà: è costituita al 95% da acqua, ha un bassissimo contenuto di zuccheri, di sodio e di nitrati. Si consuma acerba e cruda. Copertino è tra le zone del leccese dove più facilmente si può trovare la Meloncella. Nel Salento la Meloncella è chiamata anche Spiuleddhra, Minunceddhra, Cummarazzu, Cucumbarazzu e in tanti altri modi.
VINO COPERTINO DOC
Vino da pasto salentino nelle varianti rosso o rosé, il Copertino DOC si distingue per la struttura corposa, ferma, e per la versatilità con cui lo si abbina alla cucina regionale. Il Copertino DOC è ottenuto da vitigni autoctoni per almeno il 70% di uve Negroamaro, che gli conferiscono un caratteristico rosso rubino dai riflessi violacei per i vini giovani, e un rosso tendente all’arancione per i vini invecchiati, e per il restante 30% da vitigni Malvasia nera di Brindisi e di Lecce, Montepulciano e Sangiovese, in percentuale massima del 15%. Il Copertino Rosso tipo Riserva è considerato uno dei vini più pregiati del Salento.
PRINCIPALI LUOGHI DI INTERESSE STORICO ARTISTICO E CULTURALE
CHIESA DI CASOLE
L’agglomerato rurale, distante dalla Cittadella circa tre miglia, era sorto prima dell’anno Mille ad opera dei monaci bizantini la cui presenza consentì lo sviluppo di un villaggio pressoché autonomo. Saccheggiato e distrutto sul finire dell’anno Mille, in epoca normanna diventa un importante comprensorio feudale attraversato da un’asse viario che collegava i centri a nord della Cittadella con l’antica Neretum. Distrutto successivamente in seguito alle persecuzioni iconoclaste, si ripopolò agli inizi del ‘500 e i pochi abitatori si raccolsero intorno al monastero di S. Maria di Casole. A partire dal XVI secolo la località fu infeudata ai Morelli, nobile dinastia giunta a Copertino al seguito dei Castriota. I Morelli ne detennero il possesso fino all’abolizione della feudalità.
CONVENTO DEI CAPPUCCINI
Attualmente, le alterne vicende che hanno interessato la dimora di questi frati, sembrano blindate tra un le mura di un opificio. Pertanto, ciò che resta di questa antica dimora sono solo alcuni lembi di affresco, peraltro nemmeno visitabili essendo inglobati nel predetto opificio privato. Nel 1590 fu l’Universitas di Copertino a deliberare “in pubblico reggimento” di costruire un monastero per i frati Cappuccini. L’area su cui sarebbe sorto fu acquistata per poco più di 35 ducati dai fratelli Alfonso e Giovanni Filippo Russo ed era costituita da un giardino “di tre porche e diciannove canne, site in loco vocato le conche juxta via publicam che si và da Cupertino a Veglie ex occidente, altre terre delli Russi da austro, le terre beneficiali di S. Caterina da borea e le terre beneficiali di don Cubello Chiarello ex oriente”. L’atto di vendita fu rogato l’8 maggio da notar Antonio Russo alla presenza dei proprietari e dei rappresentanti del comune, tra cui Giovanni Maria Vetere, Giovan Carlo Morello, Lelio Bove, Cola Maria Corrado e il capitolo dei Cappuccini. Al termine della stesura dell’atto gli uomini dell’Universitas e i frati si recarono in processione sul posto prescelto e piantarono “la santissima cruce” proprio nel punto in cui, più tardi, sarebbe sorto l’altare principale della chiesa che sarà dedicata alla SS.ma Trinità. Al termine del rituale tre agrimensori tracciarono l’area assegnata ai frati. La chiesa e il convento dei Cappuccini non furono soltanto un polo religioso, ma fu soprattutto un centro di istruzione per molti copertinesi. Vissero di carità (il Comune, per esempio stanziava annualmente dodici ducati), ma non si astennero dal farla, come lo attestano diversi documenti fin qui pubblicati. Appartenuto ad un ordine mendicante, il convento non subì la soppressione murattiana. Fu, invece, soppresso dopo l’unificazione nazionale e incamerato al demanio dello Stato. Nel 1866 il complesso e l’annesso giardino furono dapprima concessi in affitto e nel 1875 lo Stato ne deliberò la vendita a favore di Donato Antonio Lillo di Monopoli e Donato Greco di Copertino i quali vi impiantarono una distilleria e una fabbrica per il cremore di tartaro. Da quell’anno la fabbrica venne lentamente stravolta nei suoi originali profili architettonici, tipicamente cappuccini fino a renderla irriconoscibile.
CONVENTO DEI DOMENICANI
Il complesso dei Domenicani fu fondato extra moenia col titolo di “Santa Maria dell’Idria (Odegitria = colei che conduce) sul luogo di un’antichissima cappella ai margini del bosco Idri. Intorno al 1570 mons. Ambrogio Salvio, domenicano, vescovo di Nardò, volle trasferire l’immagine della Vergine dell’Idria in prossimità del centro abitato affinché fosse adeguatamente venerata. I cronisti raccontano, infatti, che questa immagine operò grazie e miracoli al punto che fu chiamata S. Maria delle Grazie in quanto furono “moltissimi liberati da spiriti invasori” grazie all’olio di una lampada votiva che vi ardeva continuamente nei suoi pressi. Si racconta che una volta si spezzò la corda di questa lampada e, nonostante si fosse spenta, l’olio gorgogliò incessantemente per tre giorni. Fu mons. Salvio a promuovere la presenza dei Domenicani a Copertino e quindi la costruzione di chiesa e convento sostenuta dalla trionfante pietà controriformistica. Il complesso domenicano si costituì subito come polo di devozione mariana all’interno della comunità copertinese e, di conseguenza, come polo di future espansioni edilizie. Le travagliate vicende architettoniche del complesso lasciano trasparire con difficoltà notizie, dalla fase iniziale nella quale sono evidenziabili “prestiti” provenienti dalla vicina Nardò, si passa, nella prima metà del Seicento alla presenza di maestranze già famose oltre i confini della piccola patria. Si tratta di Evangelio Profilo che la ricostruisce dopo un crollo e ad Ambrogio Martinelli che vi realizza l’altare di S. Giuseppe. La chiesa, ricostruita per ben due volte in seguito a crolli accidentali fu puntualmente ricostruita ma ad ogni ricostruzione si perdevano le tracce della sua originale struttura. Al suo interno si conservano ancora due pregevoli altari barocchi, uno eretto dall’antica famiglia Lezzi-Morelli e l’altro dalla famiglia D’Ambrosio, un interessante affresco raffigurante “la Pietà”, una grande tela del 1612 di G. Domenico Catalano raffigurante la Vergine del Rosario. Chiesa e convento subirono la soppressione murattiana e per diversi anni rimasero abbandonati. La chiesa rimase parzialmente aperta al culto, mentre il convento fu venduto alla famiglia Del Prete che ne fece un opificio. Sin dal Cinquecento la chiesa fu sede della confraternita intitolata al SS. Rosario che per alterne vicende si estinse definitivamente nel 1945. Nel 1919, con editto di mons. N. Giannattasio vescovo di Nardò, la chiesa del SS. Rosario divenne la seconda parrocchia di Copertino, dopo la Matrice. Il primo parroco fu mons. Salvatore Nestola. Tra il 1930 e il 1959 la chiesa fu oggetto di sostanziali ampliamenti tra cui l’erezione, nel 1954, dell’attuale torre campanaria.
CHIESA MATRICE
La Collegiata è una tra le chiese della Diocesi di Nardò più ricche di storia. Essa rappresenta lo scrigno della storia religiosa e civile di Copertino. La costruzione fu iniziata da Goffredo il Normanno nel 1088 e terminata nel 1235 da Manfredi di Svevia il quale la dotò di numerosi privilegi elevandola a Basilica con il titolo di Vergine delle Nevi. Dedicazione che sostituì quella originale dell’Assunta. Nel ‘400, Tristano Chiaromonte, confermò gli antichi privilegi svevi e la dotò di alcune prerogative che consentirono al Capitolo collegiale di contrapporsi al potere episcopale della Diocesi di Nardò dalla quale dipendeva. La struttura che oggi si vede è la sintesi di diversi rifacimenti avvenuti nel corso dei secoli. Tra i più importanti risulta il pentagonale vano absidale realizzato nel 1576 dal clan del mastro neritino Francesco Maria Tarantino. Di notevole eccezionalità linguistica tutta neretina è la cinquecentesca torre campanaria addossata al presbiterio e terminata nel 1597 dallo stesso Tarantino. La redazione cinquecentesca della chiesa fu affidata l’8 febbraio 1569 al clan di marco Antonio Renzo di Lecce. A partire dal 1707, per volontà del vescovo Antonio Sanfelice, le pareti interne della chiesa subirono il fascino tardivo del barocco leccese. Al posto degli altari cinquecenteschi ne furono costruiti altri le cui decorazioni venivano attinte dai diffusi indirizzi barocchi. Ciò causò l’occlusione delle colonne romaniche interamente affrescate e i relativi capitelli i quali furono inglobati in poderosi pilastri. La volta a capriate scomparve, occlusa da un tetto decorato a stucco; il tutto ad opera di valenti stuccatori provenienti dall’area barese. Sul finire del XVIII secolo, per volontà testamentaria di Vito Nicola Saggese, verranno realizzati ad intaglio gli attuali stalli del coro firmati da Raffaele Monteanni. La chiesa Matrice vanta un archivio storico plurisecolare ed è particolarmente dotata di opere d’arte. Vi si possono ammirare la cinquecentesca “Deposizione” dello Strafella ed altre tele dello stesso artista. Una grande tela raffigurante la “Regina Martirum”di fra Angelo da Copertino, un bellissimo altare barocco del ‘600 realizzato da Antonio Donato Chiarello che contiene il pregevole affresco quattrocentesco raffigurante la Vergine delle Nevi. Numerosi dipinti del ‘700 tra cui quello del Guasais, del Lillo e di altri artisti di scuola napoletana.
MONASTERO DI SANTA CHIARA
Adottando il singolo patrimonio di quelle donne che scelsero la vita claustrale, il Monastero di S. Chiara divenne un istituto che consentì, soprattutto tra Sei e Settecento, il mantenimento degli equilibri economici del paese. Lo attestano gli innumerevoli prestiti censuali a favore di quanti ebbero bisogno di denaro contante per far fronte alle diverse esigenze della vita quotidiana. Ciò consentì anche un progressivo ampliamento del monastero per mezzo di acquisti e permute di beni immobili patrimoniali. L’operazione più interessante fu la cessione da parte della famiglia Morelli di un sontuoso palazzo con magnifico belvedere cinquecentesco. I Morelli, infatti, essendo impossibilitati ad estinguere un grosso prestito censuale con le monache, furono costretti a cedere un loro palazzo adiacente al convento. In epoca settecentesca la dimora fu ampliata ulteriormente ed il suo interno opportunamente decorato con stucchi per volontà di mons. Antonio Sanfelice, vescovo di Nardò. Ciò è documentato da quanto resta dello stemma del presule sul muro della prima rampa del barocco scalone del convento. La ricostruzione seicentesca di tutto il complesso, specialmente della chiesa, ha cancellato le fasi precedenti; pertanto, quello che oggi abbiamo sotto gli occhi è un edificio barocco per altro di scarsa originalità. Sappiamo che gran parte delle maestranze che attesero a questa ricostruzione non erano copertinesi. Siamo nei decenni conclusivi del ‘600 ed erano scamparsi Donato Chiarello e Ambrogio Martinelli. Sicché Copertino era divenuto un centro periferico anche per le maestranze che provenivano dall’esterno. La tradizionale impaginazione architettonica della facciata di questa chiesa è la prova evidente. Fu officiata per le monache claustrali le quali vi stettero fino alla soppressione murattiana. Dal 1826 e fino a pochi decenni orsono, la chiesa fu sede della Confraternita di S. Salvatore e Morti. Nonostante l’assenza di presbiteri che ne esercitino costantemente l’officiatura la chiesa continua a rimanere aperta al culto e la sua manutenzione è affidata alle risorse dell’adiacente chiesa Matrice.
SANTUARIO DELLA GROTTELLA
Nel 1577, Mons. Cesare Bovio fece edificare l’attuale chiesa ad unica navata con tre altari per lato. Sull’altare centrale, realizzato da Antonio Donato Chiarello, nel ‘600 fu incastonato l’affresco ritrovato della Vergine. Per interessamento del francescano copertinese p. Giovanni Donato Caputo, nel 1613 i francescani entrarono in possesso della Grottella e nel 1618 dettero inizio alla fabbricazione di un convento, che aggregarono a quello di San Francesco intra moenia. Tra i manovali vi era un quindicenne candidato alla santità, Giuseppe Maria Desa. Il convento fu oggetto della soppressione innocenziana nel 1652, ma un trentennio dopo fu riaperto e ingrandito. Nel 1753 fu dotato della prima statua in cartapesta raffigurante San Giuseppe da Copertino e vennero costruiti eleganti altari barocchi; sulle pareti della chiesa e del chiostro anonimi frati realizzarono interessanti opere a fresco. Inoltre, sul lato destro della chiesa fu realizzato un cappellone il cui altare è dedicato al Santo e contiene la prima cassa il cui furono deposte le sue membra. Il convento, soppresso per la seconda volta nel 1862, fu riaperto nel 1954 e sottoposto ad una lenta, ma graduale opera di restauro. Nella chiesa, ad un’unica navata coperta a volta, si possono ammirare interessanti opere d’arte tra cui una tela seicentesca raffigurante S. Antonio da Padova di Antonio Donato D’Orlando e pregevoli statue in pietra leccese.
SANTUARIO E STALLETTA DI SAN GIUSEPPE
La struttura, le cui pareti verticali erano realizzati da conci informi, aveva il tetto a capanna coperto con canne e tegole e al suo interno conteneva un camino, oltre a due vani di accesso. In un angolo, a sinistra entrando dal vano principale, Franceschina partorì Giuseppe Maria, ultimo di sei figli. Prima di lui, infatti, avevano visto la luce Brigida, nata nel 1587 e morta infante. Nel 1591 nacque Pietro che morì anch’egli in tenerissima età. Il 16 giugno 1596 fu battezzata Margherita ed anche questa morì giovanissima. Nel 1598 nacque il quartogenito che fu chiamato Pietro, ma che morì in gioventù. Nel 1601 vide la luce Livia che si sposò e sopravvisse ai genitori. Infine nacque Giuseppe che fu battezzato da don Delfino Fulino nella chiesa Matrice. La sua fu un’infanzia segnata dagli stenti e dalla malattia. Giovanissimo, infatti, il suo corpo subì l’invasione di piaghe purulenti e della scabbia. Più volte quel corpo fu portato tra le braccia di mamma Franceschina nella chiesa del convento di S. Francesco sperando in un miracolo. Ed effettivamente la sua guarigione avvenne grazie all’intervento di un monaco cappuccino di Galatone. Ripresosi dalla convalescenza, i genitori cominciarono ad occuparsi della sua educazione e lo affidarono allo zio francescano, padre Franceschino Desa, il quale lo tenne con sé come fratello laico all’epoca in cui si costruiva il convento della Grottella. MMa Giuseppe, che palesava essere un mezzo incitrullito, fu rimandato a casa. I coetanei, quelli più aspri e pungenti, non mancarono di affibiargli il soprannome di “Pippi boccaperta” per averlo sopreso più volte con la bocca semichiusa e le braccia aperte in forma di croce dinanzi alle immagini sacre della chiesa di San Francesco. In realtà, questo era il preludio delle sue mistiche ascensioni. Più tardi si rivolse ai Riformati di Casole, ma nemmeno questi vollero saperne della sua vocazione. Non rimanevano che i Cappuccini dove fu accettato in qualità di fratello laico. Stette prima a Copertino e poi a Martina Franca, dove fu mandato per l’anno di noviziato. Qui vestì il saio e lo chiamarono fra Stefano. Era il 1620. Un giorno, però, il maestro di noviziato lo chiamò per dirli di tornare al mondo perché non era vocato per quell’Ordine in quanto cagionevole di salute, sempre distratto al punto da apparire un po’ demente. Amareggiato, deluso, scalzo e seminudo partì da Martina Franca per raggiungere la sua Copertino. Raggiunta la casa paterna subì i rimproveri dei genitori e, in seguito a questi, scappò per rifugiarsi nuovamente nella chiesa della Grottella. Dinanzi all’immagine della Vergine pianse amaramente e pregò a lungo invocando l’aiuto della Madonna. Grazie all’amore di qualche frate, gli fu trovato un giaciglio in un sottoscala dove, nascostamente, alcuni frati gli portavano da mangiare. Di notte usciva per recarsi dinanzi all’immagine della Vergine per piangere e flagellarsi. Spiato continuamente e visto in estasi dinanzi all’immagine sacra, finalmente, dopo sei mesi di “latitanza”, fu accettato come fratello oblato e indossò l’abito francescano. Era felice. La Vergine aveva esaudito le sue preghiere. Il 1625 Giuseppe fu acettato come chierico e affiliato al convento della Grottella sotto la responsabilità dello zio, padre Donato Caputo. Alla Grottella fece il suo anno di noviziato e nel 1627 emise la professione religiosa. Il 30 gennaio di quell’anno mons. Girolamo De Franchis, vescovo di Nardò, gli conferì la tonsura e gli Ordini Minori. Il 27 febbraio, senza esami, fu ordinato suddiacono. Il 20 marzo passò al diaconato dopo aver tenuto un esame che sbalordì tutti. Per un anno si preparò all’ordinazione sacerdotale che di fa fatto avvenne nella parrocchiale di Poggiardo per mano del vescovo di Castro, mons. Giovanni Deti. Era il 18 marzo 1628. La sua povertà, ma soprattutto la fama dell’indiscutibile carica umanitaria, la sua eccezionale fede religiosa e i suoi prodigi superarono i confini cittadini e quelli provinciali. La sua prima levitazione è documentata il 4 ottobre 1630 al rientro in chiesa della processione di San Francesco. Giuseppe, infatti, si sollevò da terra fino all’altezza del pulpito, immobile sotto gli occhi di una folla in delirio. Da allora la sua vita cambiò. Le estasi divennero sempre più frequenti. Bastava un ragionamento su Maria o su Gesù perché restasse inerte o cadesse a terra come un cadavere. Anche gli episodi di sollevamento da terra durante la celebrazione della messa divennero frequenti. Il santuario della Madonna della Grottella, quindi, divenne ben preso un porto di mare soprattutto nei giorni festivi. Chi esclamava, chi piangeva, chi chiedeva misericordia all’Onnipotente. Tutti circondavano l’altare, toccavano il “santo”, lo osservavano da ogni lato, facevano esperimenti delle sue sensibilità con spilli e con candele accese, finché non interveniva il padre guardiano a riportare la calma. San Francesco era divenuto il punto fermo della vita di fra Giuseppe. Nel 1631, chiesto ed ottenuto un pellegrinaggio a Loreto e ad Assisi non poté compierlo a causa delle strade chiuse al transito per il diffondersi della peste. A Giuseppe obbedivano non solo gli uomini, ma anche gli animali. Cominciò a profondere miracoli i quali si pubblicano per la prima volta da Domenico Andrea Rossi nel 1767. Il Ministro Generale dei Minori Conventuali, infatti, in quell’anno, per i torchi di Giovanni Zampei, dette alle stampe il “Compendio della vita, virtù e miracoli di S. Giuseppe di Copertino”. Ma la diffusione dei suoi miracoli non tardò a richiamare l’attenzione del Sant’Offizio di Napoli. Le accuse partirono da Giovinazzo dove il Nostro, al termine di una levitazione fu accusato di truffa. Sicché il 26 maggio 1636 partì l’accusa formale. Secondo la procedura il fascicolo fu inviato a Roma dove la commissione cardinalizia del tribunale inquisitoriale discusse il caso. Nel 1638 a Napoli iniziò il suo calvario. In attesa di nuove prove di santità fu deciso di tenerlo segregato e fu mandato esule e triste ad Assisi. Era il 1643 e i suoi miracoli si susseguivano anche in Assisi dove gli fu consegnata la cittadinanza onoraria. Era il 4 agosto del ’43. Ad Assisi padre Giuseppe visse quattordici anni e rivelò anche in quella città le sue doti profetiche tra cui la morte di Urbano VIII anticipata tre giorni prima. Ultimo carisma fu quello della scienza. Semplice di lingua, zoppicante in calligrafia, trepido nella lettura, ma quando parlava di Dio “aveva tanta fecondia nei discorsi teologici che pareva dotto e intelligente”. Una scienza infusagli da Dio, sostenne padre Roberto Nuti. Le sue messe continuavano ad essere stracolme di fedeli in attesa dei suoi prodigi. Sicché, dinanzi a tale fenomeno non poté restare immobile la Santa Inquisizione. Era il 1653, infatti, quando il domenicano Vincenzo Pellegrini ne dispose il trasferimento a Pietrarubbia , presso l’eremo di S, Lorenzo. Giuseppe fu consegnato al padre guardiano con l’ordine di non farlo uscire dalla cella. Ma della sua presenza si accorsero anche gli abitanti di quelle contrade che, pur di vederlo continuarono ad assieparsi tra le mura della chiesa. Sicché fu ancora una volta trasferito tra i Cappuccini di Fossombrone. Anche qui padre Toedoro da Cingoli ebbe severe disposizioni circa la sorveglianza di padre Giuseppe. Nel 1657 Giuseppe fu tra i Conventuali di Osimo dove visse fino al 1663 per essersi ammalato. Pazientemente si sottopose alle scelte del cerusico. Il suo stomaco rifiutò ogni forma di cibo. La febbre lo divorò. L’8 settembre gli fu somministrata la comunione sotto forma di viatico. Verso sera implorò l’estrema unzione. La sera del 18 il suo volto cominciò a risplendere. Un quarto d’ora prima di mezzanotte chiuse la vita terrena con un lungo ineffabile sorriso. La cerimonia di sepoltura avvenne la mattina del 20. La cassa fu calata in un loculo sotto la cappella dell’Immacolata, a sinistra dell’altare maggiore. Da quel momento il pellegrinaggio alla tomba di fra Giuseppe da Copertino non avrà più termine. L’anno dopo furono aperti i processi ordinari nelle diocesi dove aveva a lungo dimorato. Nel 1688 ebbero inizio i processi apostolici che saranno letti ed approvati nel 1690. Dopo ampie discussioni, che durarono fino al 1735, Giuseppe fu dichiarato “Venerabile”. Fu proclamato beato il 24 febbraio 1753 e, il 16 luglio 1767, anniversario della canonizzazione di San Francesco d’Assisi, Clemente XIII lo proclamò Santo. Nel 1754, un anno dopo la sua beatificazione, l’Universitas di Copertino come atto di devoto omaggio al suo concittadino più illustre decise di costruirvi l’attuale santuario inglobandovi la “stalletta”. Per l’occasione furono abbattute un tratto di mura, la chiesa di San Salvatore e la misera dimora di donna detta “la Carlangiana”. Nel 1758 l’architetto copertinese Adriano Preite consegnò la fabbrica ai fedeli. Nella concava facciata di questa chiesa il Preite dimostra di aver assorbito la grande lezione neretina del Sanfelice del quale trasmette alla seconda metà del XVIII secolo gli stilemi e gli impianti tipologici. Altra interessante opera di quell’anno fu la trasformazione della porta del Castello in un arco di trionfo in onore del Santo. Superfluo sottolineare le manifestazioni di giubilo a Copertino e nel Salento in occasione delle diverse fasi che precedettero la santificazione. San Giuseppe da Copertino fu proclamato protettore degli studenti e degli esaminandi. Fu proclamato, inoltre, protettore dell’Aeronautica Militare.
CASTELLO DI COPERTINO
L’imponente struttura militare che appare ai nostri occhi fu realizzata nel 1540 secondo i canoni architettonico-militari imposti dalla scoperta della polvere da sparo. Il progetto è opera dell’architetto militare Evangelista Menga che lo eseguì per volere di Alsonso Castriota, giusto quanto si legge lungo la cortina est: DON ALFONSUS CASTRIOTA MARCHIO ATRIPALDAE / DUX PRAEFECTUSQUE CAESARIS ILLUSTRIUM DON ANTONII GRANAI CASTRIOTAE ET MARIAE CASTRIOTAE CONIUNGUM (sic!) DUCUM FERRANDINAE ET COMITUM CUPERTINI PATER PATRUUS ET SOCER ARCEM HANC AD DEI OPTIMI MAXIMI HONOREM CAROLI V RE / GIS ET IMPERATORIS SEMPER AUGUSTI STATUM ANNO DOMINI MDXL. Lungo tutto il perimetro esterno si osservano novanta feritoie le cui cavità consentivano un facile movimento dei cannoni. Queste sono distribuite su tre ordini separati da un cordone marcapiano. Un fossato scavato nella roccia a scopo difensivo ne completa l’aspetto fortilizio. Il castello fu anche dimora signorile: lo testimonia il balcone rinascimentale con balaustra traforata, nonché il sontuoso portale chiaramente esemplificato sul modello napoletano di Castelnuovo. Gli imponenti bastioni lanceolati e il fastoso portale rinascimentale sono, quindi, le principali attrattive esterne. Il portale, a cui recentemente è stata data un’esemplare decodificazione iconografica, è attribuito allo scultore neretino Francesco Bellotto su probabile disegno di Evangelista Menga. Le sue decorazioni, realizzate in calcarenite locale, risultano integrate successivamente con stucchi per proteggerle dai venti che nei secoli hanno esercitato un’azione polverizzante. Essendo tipicamente celebrativo, su di esso sono state immortalate le dinastie di re e regine, ma anche dei feudatari che si sono succeduti a Copertino. Di tipo trionfalistico sono invece le armature scolpite, i vessilli, i cannoni concentrati nel grande lunettone. Elementi ornamentali sono pure il diffuso fogliame, le modanature tortili , le colonne scanalate ed il diffuso carattere favolistico di cui restano alcune tracce sul lato sinistro di chi guarda. Difatti, in alto, subito dopo la colonna si può osservare Alessandro Magno che viene trasportato da un carro a sua volta spinto dal soffio di due grifoni. Dall’esterno si scorge anche il maschio a base scarpata realizzato nel XIII secolo. Nel 1407, in occasione delle nozze tra Ladislao di Durazzo e Maria D’Enghien, sul lato est fu incastonata l’arma delle due case. Questa torre è costituita da tre vani sovrapposti che comunicano con una scala a chiocciola scavata nello spessore murario. Attraversando il portale d’ingresso ci si trova davanti a quello angioino-durazzesco, ovvero l’originale varco d’ingresso al maniero. Da qui si può accedere per ammirare la cappella di S. Marco voluta dagli Squarciafico e affrescata nel 1580 da Gianserio Strafella; al suo interno vi troveremo i due sarcofaghi cinquecenteschi realizzati da Lupo Antonio Russo che contennero le spoglie di Uberto e Stefano Squarciafico, padre e figlio. Dal suggestivo atrio interno si ha una completa veduta del maschio angioino. Se si prosegue lungo lo scalone rinascimentale che conduce al piano nobile si potrà ammirare la quattrocentesca cappella gentilizia intitolata a S. Maria Maddalena. Il porticato, fatto costruire nel ‘600 dai Pignatelli, conferisce alla struttura un delicato movimento architettonico che interrompe piacevolmente la rigida geometria delle linee. E per ultimo, ma non ultimo, sarebbero da osservare le lunghe, oltrechè ampie gallerie che percorrono interamente il perimetro della fortezza ed oggi adibite ad iniziative di carattere culturale.
CRIPTA DI SAN MICHELE ARCANGELO
La struttura risale al 1314, epoca in cui regnava Roberto D’Angiò e il casale di Copertino faceva ancora parte dell’area ellenofona salentina. Come si evince dall’iscrizione dedicatoria posta al suo interno e rilevata per la prima volta nel 1982 dallo studioso Andrè Jacob, questa laura fu costruita per “devozione del cavaliere Sourè, di sua moglie e dei suoi figli “e fatta affrescare” dalla mano di Nicola e di suo figlio Demetrio da Soleto”. La costruzione dell’ipogeo, avvenuta due secoli dopo la persecuzione iconoclasta, dovette assolvere non solo funzioni cultuali, ma anche quelli di sicurezza in epoca in cui il territorio veniva funestato da scorrerie piratesche e da bande di mercenari sicché, nel momento del pericolo, monaci e fedeli potevano trovarvi rifugio. L’invaso, interamente scavato nella roccia, misura m. 9 x 5,20 e la volta, sorretta da due pilastri, è alta m. 2,60. Vi sono due altari scavati nella roccia. Il primo, quello della navata centrale, è affrescato con una scena della crocifissione (il Crocefisso, la Vergine e San Giovanni Evangelista). Tra l’altare centrale e quello a sinistra è affrescata la scena dell’Annunciazione. L’altare della navata sinistra contiene l’affresco più antico raffigurante San Giovanni Evangelista. Sulla parete destra si scorge la figura dell’Arcangelo Gabriele, mentre sulla parete settentrionale è leggibile un volto muliebre. Il soffitto della cripta conserva ancora un’ampia superficie affrescata dalla quale emerge un cielo stellato con stelle a otto punte e al centro una delicatissima scena sentimentale. È noto che i calogeri basiliani affrescarono riccamente le loro dimore, ricoprendo di immagini le absidi, i pilastri, le pareti laterali, gli archi e talvolta i soffitti adottando un’iconografia bizantina che prescriveva un’immagine statica e bidimensionale. Con il progressivo distacco dall’Oriente questa iconografia si evolse dando maggiore consistenza e vigore alle immagini che lentamente acquistarono una disposizione scenografica di tipo tridimensionale. Questa evoluzione raffigurativa, adottata dalla scuola pittorica italo-greca sorta in San Nicola di Casole presso Otranto, influenzò molti artisti meridionali vissuti prima di Giotto e costituì un momento di transizione tra l’arte orientale e quella occidentale. E’ questo, quindi, il caso degli affreschi della cripta di San Michele Arcangelo; affreschi “bizantineggianti” e non più bizantini dove il movimento e la drammaticità scenica di alcune figure sono assai lontane dall’impersonalità che emerge dai dipinti realizzati nei secoli precedenti, la cui connotazione prevalente fu quella di una piatta frontalità e di una statica ieraticità.
FRANTOI IPOGEI
I frantoi ipogei di Copertino furono realizzati fuori dal perimetro murario, in zone il cui sottosuolo si presentava composto di calcare sabbioso duro. Ma, il motivo principale per cui questi manufatti furono scavati appena fuori le mura, fu quello igienico-sanitario che veniva però disatteso allorquando, dovendosi svuotare periodicamente della sentina l’apposito vano ipogeo, questo prodotto di risulta veniva depositato a ridosso di alcuni tratti di mura, nei pressi del convento dei Cappuccini, oppure nella grande voragine del Malassiso. In questi frantoi si accedeva (e si accede) per mezzo di una serie di gradini scavati nella roccia. Appena dentro ci si trova dinanzi alla cosiddetta “fonte” costituita da due macine in pietra dura che un mulo provvedeva a far girare intorno ad un palo fissato tra il centro della fonte e la volta del vano. Intorno alla vasca si osservano una serie di finestrelle che affacciano nelle cosiddette “sciaghe”: cavità a campana più o meno grandi nelle quali venivano scaricate le olive attraverso apposite aperture poste sul piano stradale. Nelle sciaghe il frutto poteva rimanervi per oltre un mese pertanto, la morchia che si depositava alla base del silos passava attraverso un lume e veniva convogliata in un apposito pozzetto scavato alla base di ogni sciaga. Sottoposte al primo processo di lavorazione nell’apposita vasca, le olive si riducevano in un untuoso impasto. Da qui si passava alla fase successiva che consisteva nel trasportare il prodotto nel cosiddetto “posto delle mamme” per essere poi torchiato. In questa zona le maestranze preparavano i “gabbioni”, ovvero distribuivano l’impasto tra un “fiscolo” e l’altro, impilandolo. Da qui lo trasportavano presso il primo torchio dove rimaneva pressato per almeno trentasei ore. L’olio ottenuto dalla prima spremitura veniva convogliato in appositi tini di castagno per farlo sedimentare dalla morchia. I tini erano allogati in fosse provviste di un portellone che veniva chiuso a chiave dal “nachiro”. A costui, responsabile del frantoio, spettava il compito di “crescere” l’olio, cioè misurarlo con appositi misuratori di creta alla presenza del proprietario delle olive. Dopo la prima spremitura l’impasto veniva ricomposto per essere sottoposto, per dodici ore, alla seconda spremitura in torchi più piccoli. Al termine di quest’ultima fase non restava che depositare nel “sentinaio” quanto avanzava dalla spremitura, cioè la “sansa”. Non mancava, nell’ipogeo, un luogo destinato al ricovero delle bestie impiegate a far ruotare le macine, ed un altro riservato alla consumazione del cosiddetto “muccosi”, ovvero pane, vino e companatico, da parte delle maestranze. Dopo aver sintetizzato il processo di lavorazione delle olive accenniamo ora alle principali condizioni che consentivano la gestione di un frantoio, ricavate da un documento del 1568 in cui si parla dell’acquisto, per 117 ducati, del “Trappito sotto il Castello” da parte di Bernardino Bove e Francesco De Lectio. Il proprietario del frantoio non doveva pretendere più di quattro carlini per ogni macinatura. Al padrone delle olive competeva dar da mangiare alla maestranze sia al mattino che a sera; diversamente era obbligato a pagare in ducati il costo del cibo. Il possessore del trappeto era obbligato a predisporlo ogni anno affinchè non vi mancassero le maestranze, le bestie necessarie a far girare le macine ed eventuali supporti rigorosamente in legno d’ulivo. Il padrone delle olive era tenuto a pagare il costo della molitura alla consegna dell’olio. In caso di mancato pagamento il nachiro avrebbe trattenuto l’olio per rivenderlo, rifacendosi così dei costi sostenuti per la molitura; al padrone delle olive avrebbe versato il resto. Al nachiro competeva riferire al daziere le generalità del padrone delle olive e la quantità di olio ottenuto affinché potesse esigere il dazio. A vigilare intorno ai frantoi c’erano poi i cosiddetti “soprastanti” incaricati dall’Universitas. Costoro osservavano che tutte le operazioni si svolgessero in ordine; avevano libero accesso nel frantoio e il potere di sospendere la macinatura qualora si verificassero disordini. A Copertino, nel ‘500, erano attivi 11 frantoi ipogei. Di alcuni di loro conosciamo la denominazione: “trappito sotto il Castello, trappito Piccolo, trappito delle Decime, trappito dello Basilio, trappito delle Sceminale, trappito del Lago Rosso, trappito della Cisterna della corte, trappito delle Mendule, trappito delli Morello”. Un documento del 1566 ci rivela che proprio quell’anno la raccolta delle olive avrebbe superato ogni aspettativa. Sicchè il sindaco Pompeo Ventura fu costretto a rivolgersi al governatore Tommaso Torriglia, affinchè autorizzasse l’allestimento di tutti i trappeti esistenti e se ne costruissero altri fino a metterne a disposizione ventitré. Il Torriglia assicurò la sua disponibilità, ma sostenne che non ci sarebbe stato bisogno di costruirne dei nuovi in quanto, anche quando nel 1558 ci fu “entrata” (raccolta) ben più abbondante di quella in corso, furono sufficienti quelli già esistenti. Un altro documento, infine, ci rivela che nel 1567 la corte feudale, essendo proprietaria di dieci frantoi, li vendette all’Universitas di Copertino che a sua volta li rivendette a privati cittadini. Di generazione in generazione questi manufatti giunsero pressoché attivi fino al XIX secolo. Nel 1861, infatti, venivano censiti 15 “trappeti a grotta” ceduti al Comune dall’ex feudatorio con sentenza del 16 luglio 1810. Dal censimento emerge che Luigi e Antonio Cosma ne possedevano 3, Francesco Cosma 1, gli eredi di Trifone Nutricati Briganti 2, Bonaventura Calcagnile 1, Giuseppe Trono 1, don Vincenzo De Pascalis 1, Florindo Sederino 2, Bartolomeo Ravenna di Gallipoli 1, gli eredi del principe di Belmonte 1, i padri Teatini di Lecce 1, il Monastero di S. Gregorio Armeno di napoli 1. Aggiungiamo che in quello stesso anno erano stati attivati tre trappeti “a giorno” appartenenti rispettivamente a Sebastiano Greco, Giovanni Gentile e Francesco Del Prete. Questi tre manufatti segnano l’inizio della fine dei frantoi ipogei.
PALAZZO PAPPI
Appartenuto alla famiglia Pappi, facoltosa presenza locale sin XVI secolo. Tracce del loro rinomato patrimonio si ricavano dal catasto Onciario di Copertino del 1745 dove, appunto, risultano i copertinesi più facoltosi essendo gli unici tassati per oltre 500 once. La loro presenza di estinse sul finire del ‘700 con Francescantonio. Eressero la loro cappella nella chiesa dei padri Domenicani, presso quello che oggi è il fonte battesimale nella chiesa omonima. Dimorarono in un grande palazzo al centro del paese. Quanto resta dell’avito edificio è il portale che si può ammirare in un vico lungo l’attuale via M. di Savoia. Il portale è un edificio di modeste dimensioni ma dai raffinati partiti decorativi; è diviso dallo spazio della corte da una quinta che è un vero e proprio fondale trasparente costituito da un portale catalano durazzesco affiancato da due grate lapidee splendidamente traforate. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un risultato architettonico in linea con i coevi esemplari metropolitani.
PALAZZO VENTURA
Dimora della famiglia Ventura. La loro presenza a Copertino risale al XV secolo con Raguzio de Ventura, proveniente dall’area salernitana, il quale sposò la copertinese Raimondina Camerario. Furono da sempre attivi in ambito economico al punto che soprattutto del XVI secolo risulteranno tra le figure più eminenti nella civica amministrazione della quale ne assumeranno la gestione finanziaria. Particolarmente vocati nell’amministrazione del denaro i Ventura costituiranno a Copertino il primo istituto di credito in epoca contemporanea. Ciò che resta della loro dimora è il pregevole portale barocco interamente ripreso a stucco nel corso della prima metà del ‘700. Il destino del palazzo sembrò segnato alla fine dell’800 quando, cioè, imparentandosi con la famiglia Cosma, acquisiranno nell’attuale Piazza del Popolo la dimora di quest’ultimi. Il vecchio palazzo, adibito a dimora dei loro coloni, andò lentamente in rovina. Finalmente, intorno al 1950 i Venturi lo cedettero alla parrocchia S. Maria ad Nives che ne fece un centro educativo. La cessione comportò inevitabili manomissioni, rifacimenti e ampliamenti che ne occultarono il cinquecentesco profilo architettonico.
PALAZZO PRENCE
Quella dei Prence fu una famiglia che si impose sul proscenio locale con una dinastia di ecclesiastici. Dell’edificio si conservano ancora pallide tracce sei-settecentesche, alcuni lembi di affreschi al suo interno e il magnifico portale. Attribuito al Chiarello quest’ultimo rappresenta uno straordinario pezzo architettonico nel quale spicca con energia la fantasia un pò allucinata dell’esecutore, sempre sbilanciata in direzione di una resa antinaturalistica della figurazione, dove trova spazio il demoniaco e il sovrannaturale proprio come nelle visioni mistiche dei suoi santi compatrioti. Il portale è sormontato da S. Michele che uccide il drago e da due altrettanto significativi rilievi che inquadrano le due aperture della piccola corte del medesimo palazzo.
PALAZZO DIEZ – CAPOZZA – D’AMBROSIO
All’origine, nel ‘500, fu il castellano spagnolo Diez a realizzare la prima struttura del palazzo, come lo attestano documenti notarili ed elementi di architettura rinascimentale ancora leggibili sul prospetto della cappella dipendente del palazzo e intitolata a S. Maria del Popolo. Per trasmissione ereditaria l’edificio fu poi dei Capozza e nel Settecento dei D’ambrosio. Il palazzo sorse nel punto più nevralgico del paese e segnò la prima dimora che consentì lo sviluppo urbanistico del cosiddetto “Borgo”: un tratto di strada rettilineo sorto sul finire del ‘500, che mise in comunicazione il centro antico con il convento dei Domenicani. Passato ai D’Ambrosio, il palazzo fu oggetto di interessanti decorazioni esterne che culmineranno in una serie di iscrizioni sugli architravi. Con il matrimonio tra Francesca D’ambrosio e Antonio Moschettini il palazzo assunse la denominazione di quest’ultimo la cui erede, Palmira Perrotta, ne fece un polo per il recupero di ragazze orfane e un asilo infantile presso il quale, a partire dal 1931, si formarono intere generazioni di copertinesi. La dimora risulta oggi articolata e complessa dal punto di vista architettonico, soprattutto a causa dei continui ampliamenti dettati dalle esigenze tipiche di un istituto con scopi esclusivamente pii.
I MIGNANI
“Mignano” deriva dal latino “maenianum” e prende il nome da Gaio Menio (318 a.C.) il quale per primo avrebbe fatto sporgere travi sopra le “taberne veteres” del Foro, per creare palchi sospesi in occasione di spettacoli. Il mignano costituì, soprattutto nel ‘500, un singolare elemento architettonico che faceva da tramite tra la riservatezza della corte e la strada pubblica. Si tratta di un singolare balcone, servito da una scala, che sovrasta il portone d’ingresso alla corte il cui parapetto occupa spesso tutto il prospetto sulla strada. Esso rappresenta un elemento della casa a corte di notevole importanza non soltanto sotto il profilo architettonico, ma anche e soprattutto sotto l’aspetto sociale. Difatti serviva alla famiglia e in particolare alla donna di casa che più spesso ne faceva uso per partecipare, con discrezione, alla vita del paese. Un modo di vedere senza essere visti. Un affaccio al quale la donna ha sempre dato una grande importanza, specialmente durante le processioni religiose, in occasione delle quali si appendevano le coperte più belle del corredo.
PIAZZA DEL POPOLO
Oggi come allora la piazza è animata da numerose attività artigianali e commerciali. Sul lato Ovest della Piazza si affaccia la Chiesa di S. Chiara con annesso il complesso conventuale, ora sede di Uffici Comunali ( Urbanistica , Lavori Pubblici e Biblioteca Comunale ). accanto alla Chiesa di s. Chiara, in angolo con la Piazza, esisteva il Sedile, acquistato dalle clarisse e adibito a infermeria conventuale ( attualmente sede della società agricola di mutuo soccorso ). Sul lato nord della piazza vi sono delle robuste abitazioni del tardo ‘500 e la più recente Torre dell’Orologio. Chiude il lato sud della piazza il Palazzo del Prete, edificato verso la fine dell’800 la dove esisteva l’antico palazzo cinquecentesco dei Morelli. Sul lato est della piazza è visibile il palazzo Venturi, ricostruito nell’800 con accanto la Cappella di S. Stefano, ancora individuabile nonostante le trasformazioni.
PRINCIPALI EVENTI FESTE PATRONALI MERCATI E SAGRE
DAL 16 AL 19 SETTEMBRE FESTA DI SAN GIUSEPPE DA COPERTINO
Quattro giorni di festa per celebrare San Giuseppe da Copertino tra concerti e festeggiamenti religiosi e tradizionali. Imperdibile la parata di luminarie, considerate le più belle di Italia, al centro delle quali quasi in volo, viene posizionata l’effige del Santo. San Giuseppe viene considerato il Santo dei voli a causa della levitazione che secondo le cronache del tempo avrebbe compiuto in stato di estasi. Ciò che contraddistingue la festa è la grande partecipazione di pubblico perché si festeggia il concittadino più illustre.
MARTEDI’ MERCATO INFRASETTIMANALE
DAL LUNEDI’ AL SABATO MERCATO GIORNALIERO
PUNTI DI INFORMAZIONE TURISTICA
VIA MARGHERITA DI SAVOIA, 71 I.A.T. COPERTINO
Tel: 0832 949010